Da "Questitalia" 144, Venezia, Marzo 1970, p.1: "L'integrismo degli anni settanta", W.Dorigo: Se il continuum clericale non si è mai interrotto in questi anni nella società italiana, da tempo non ci veniva dato di assistere a un rigurgito integristico di tale complessità e gravità, quale quello che, nel bel mezzo della più affannosa crisi politica oltre che governativa del dopoguerra, ha sommerso ogni problema sociale, economico e politico italiano -Dio sa se ne esistono!- sotto la coltre della più specifica e caratterizzante mistificazione morale e politica che nutra la nostra società. Poco più di un lustro è trascorso dalla "Pacem in terris" e dalle dichiarazioni 'laiche' di Giovanni XXIII sui rapporti fra il Vaticano e lo Stato italiano, e addirittura dalla dichiarazione conciliare "dignitatis humanae" emanata -non senza censura- sotto il pontificato di Paolo VI, ed ecco, testimonianza irrefutabile e globale che il neo-integrismo è una realtà crescente (e non una stanca proiezione ripetitiva e di comodo delle nostre "ossessioni" anti-pacelliane, come subito dopo il concilio volle insinuare qualcuno, in casa cattolica come in casa comunista), ecco una "doppietta" magistrale, per non dire "magisteriale": il Vaticano suona l'allarme per una guerra di religione contro l'introduzione de divorzio nel nostro ordinamento, mediante note diplomatiche richiamantisi al Concordato, e la presidenza della Commissione episcopale italiana pone l'ultimatum alle ACLI per la scelta fra una politica moderata al servizio dell'establishment democristiano e la rinuncia al nome cristiano. In un quadro, che più fosco e critico non potrebbe essere per la Chiesa cattolica in tutto il mondo, funestato com'è dalla crisi dell'autorità gerarchica, dalla contestazione della disciplina sacerdotale, dal crollo della morale sessuale, dallo sconquasso della struttura istituzionale e dal cedimento dei presupposti culturali, psicosociologici e linguistici della fede, i capi ecclesiastici di quella beata enclave di un remoto passato dentro un saeculum che irrompe irresistibile che è l'Italia non trovano di meglio, per salvare la "casa che crolla", che ricorrere ad arzigogoli diplomatici per mantenere il dominio in partibus infidelium, e a ricatti brevettuali sulla "testata sociale" per ridurre alla ragione i colonnelli ribelli del proprio esercito di volontari. Non intendiamo far qui un discorso di religione, anche se -sembra ineluttabile- un discorso sulla religione, su questa in particolare (sulle sue strutture, sui suoi istituti, sul suo rapporto con gli uomini degli anni nuovi in cui siamo entrati), dovrà essere ripreso da questa rivista, per portare avanti, con sincerità e coraggio, verso logiche conclusioni i discorsi condotti fin dagli anni cinquanta: e anche se i discorsi di allora forse non riuscivano a prevedere tutta la 'logica' connessa (o implicita?) al loro rigore in faccia a un susseguirsi di eventi esterni che stanno ora rivoluzionando la nostra cultura, non per mezzo di movimenti politici di comodo agitabili quando si voglia dai superiori, ma mediante un cambiamento organico di variabili storiche, per ciascuna delle quali sono definibili le motivazioni profonde, senza che sia dato peraltro finora di ricostruire in sintesi razionalizzabile -e quindi in qualche modo proiettabile nel futuro per estrapolazione- la linea-vettore che le unifichi verso un 'destino'. Il discorso, oggi, è più che mai di politica, sulla e nella politica: né vuole riguardare il versante politico -e l'interesse politico- del Vaticano in Italia e delle gerarchie ecclesiastiche concordatarie. Si tratta solo di stabilire che cosa è accaduto (e con quali complicità), e perché: e che cosa potrà (o, viceversa, dovrà) accadere, perché questa grossa partita finale sia decisivamente risolta. * * * I fatti sono noti. Da una parte, una serie impressionante di interventi vaticani -ufficiali ma segreti, ufficiosi ma palesi, riservati e diretti ad personam, pubblici e intenzionali coram populo- hanno marcato con articolata spregiudicatezza lo svolgersi della crisi di governo per tentare di guadagnare con essi la specifica posta antidivorzistica dentro la gabbia concordataria e per trarre altresì non disprezzabili cascami politici dallo scompiglio provocato all'interno del malfermo equilibrio delle correnti democristiane; dall'altra l'ultimatum alle ACLI del presidente della CEI, non ben servito dalle maldestre risurrezioni delle minoranze destrorse e clericali del movimento, ha mostrato ancora una volta, seppur fosse stato necessario, come la politica ecclesiastica non abbia ancora abbandonato le classiche parallele che ne rappresentano la concezione oltre che la prassi: linea diplomatica d'oltre Tevere, linea sociopolitica dall'interno della società, civile o religiosa ch'essa sia. Non vorremmo dedicare molto spazio alle esegesi. Ma i testi pubblici di cui si dispone chiedono di essere in qualche modo fermati in alcuni passi più significativi, perché non sfugga da una parte la mens con la quale Paolo VI e i suoi fidi affrontano e aggravano -intenzionati solo a cavarne un utile 'aziendale'- la più grave crisi italiana da un quarto di secolo a questa parte, e dall'altra il livello cui il veleno integrista ha spinto in Italia una vicenda epocale che la Chiesa cattolica, appunto, perderà anzitutto e comunque sul piano mondiale. Ha detto, fra l'altro, Paolo VI, all'udienza generale dell'11 febbraio, che i patti lateranensi misero fine "al prolungato e dannoso conflitto che aveva contrapposto al Papa il Paese", grazie, "da una parte, alle rinunzie che la Santa Sede ha fatto dei suoi diritti su quelli che erano stati per secoli gli Stati pontifici", e grazie "non meno, alla situazione fatta, mediante il Concordato, alla Chiesa ed ai cattolici nello Stato italiano, in confronto a quella -insufficiente e insicura- di prima". E, arrivando a quanto lo preoccupava -il problema del divorzio-, ha auspicato "che simile equilibrio non conosca scosse, ancor meno ferite o rotture", aggiungendo -con specifico aperto riferimento all'art.34 del Concordato- la speranza e l'auspicio "per amore della pace, per l'onore stesso dell'Italia e per il maggior bene di tutto il popolo italiano, che sia evitato qualsiasi passo che con decisione unilaterale venisse a vulnerare ciò che fu di comune intesa solennemente stabilito". Paolo VI è tornato poi sul tema nell'udienza generale del 25 febbraio, per esortare apertamente i fedeli alla guerra di religione: "Non permettete che entri nella concezione della vita cristiana questa fessura, questa ferita che le si vuole adesso infliggere; e cioè che la famiglia, l'amore che vi unisce, possa essere disgiunto e disgregato". Inutile, dopo tanto autorevoli affermazioni, citare le numerose scolastiche ripetizioni e variazioni sul tema dei giornali vaticani e dei commenti integristici in Italia, se non per notare come uno dei sostegni dialettici più forti de "L'Osservatore Romano" sia stato quello di citare quel campione del pensiero laico e democratico che è il sen. Gava (che aveva parlato a titolo personale alla Camera) come "prova che il governo in carica era ben consapevole del problema che [la Santa Sede] a suo tempo aveva prospettato e sottolineato". Nelle sue brevi affermazioni Paolo VI non ha temuto, dunque, di riscrivere la storia ad usum delphini circa le responsabilità del conflitto del 1870 e i "diritti" secolari del papa sugli "Stati pontifici" (poco manca, dunque, che si ricominci a discutere sulla "donazione di Costantino"!) e circa la situazione -sufficiente e sicura- che Mussolini avrebbe concesso con i patti nel 1929 (e lo si vide, per chi non fosse in malafede, con i fatti del 1931, e con le leggi razziali del 1938: ecco un vulnus all'art.34 che il Vaticano dimenticò ben presto!); e non ha temuto di reiterare di persona quanto la sua pubblicistica aveva fatto dire ai democristiani fin dall'inizio della vicenda della legge Fortuna -anche a quelli che, in via riservata, si mostravano convinti del contrario: ma, si sa, "il collegio è il collegio"! -circa l'incompatibilità fra essa e l'art.34 del Concordato, giungendo, anzi, a un eccesso francamente incredibile: perché non si può veramente capire come un papa possa travisare una legislazione divorzistica, che intende sciogliere matrimoni già distrutti, come un attentato, una ferita scientemente inferta alla concezione della vita cristiana, e addirittura come un atto disgregativo della famiglia e dell'amore di chi si ama! Nella dinamica processuale degli eventi, di questa pesantezza erano i colpi provenienti dal Vaticano quando Rumor tornò al Quirinale rinunciando al mandato. Più articolati, ma ancor più insidiosi, come si conviene al bizantino distinguere dell'on. Moro rispetto alle vandeane certezze dell'on. Rumor, furono i colpi sparati da villa Malta, sede de "La Civiltà Cattolica", ossia da quel pensatoio d'emergenza della Chiesa che si riconosce al servizio, più che della compagnia dei gesuiti o dei vescovi della penisola, del Primate d'Italia. Nel fascicolo del 7 marzo della rivista citata il p.Sorge, dopo essersi compiaciuto di costatare che la nota diplomatica e l'allocuzione dell'11 febbraio avevano finalmente risvegliato l'opinione pubblica dal "torpore" e dalla "rassegnazione" nei confronti del problema, sollevando "un'eco profonda, mettendo a rumore il mondo politico", "mentre i partiti stanno cercando faticosamente di ridare vita a un governo..." etc. etc., ripeteva la nota lezioncina, non senza alcune insistenti schematizzazioni che risultano involontariamente comiche (il "matrimonio-sacramento" è regolato da una "disciplina civile", "già stabilita nell'art.34 del Concordato", che ha "natura solenne di trattato internazionale": dunque, stiamo apprestandoci a inferire un "vulnus" a un sacramento mediante la violazione di un trattato internazionale! La teologia medioevale non era arrivata a garantire i sacramenti con leggi e trattati internazionali: c'è arrivato il p.Sorge), per giungere ad alcune alternative: 1) si fermi la legge, in attesa di discutere in sede diplomatica propria la revisione del Concordato; 1 bis) si proceda con la legge, stralciando peraltro l'art. 2, relativo al divorzio da matrimonio concordatario; 2) si emendi l'art. 2, salvaguardando l'indissolubilità del matrimonio concordatario; 3) si applichi alla legge la procedura di legge costituzionale. Bastava un breve esame, per accorgersi che tutte e quattro le proposte si identificavano in un punto: sospendere (1), o ricominciare da zero l'iter della legge (1 bis e 2), o raddoppiarlo addirittura (3). In ogni caso poi, concludeva allusivamente il dotto gesuita, "alla DC non resterebbe che rimettere il problema alla decisione sovrana del popolo, mediante il referendum previsto espressamente dalla procedura di revisione costituzionale", oppure: "La DC non può rinunciare ad usare ogni mezzo legittimo (ricorso al referendum abrogativo) in difesa del matrimonio concordatario, senza provocare turbamento e sfiducia nella sua base elettorale". Forlani e soci erano avvertiti. A nulla doveva servire che, il giorno dopo, un quoditidano di Roma pubblicasse le sensazionali dichiarazioni di altri tre gesuiti docenti dell'università Gregoriana (i pp.Diez Alegria, Tufari e Pin), subito confortate da altre lettere o dichiarazioni zeppe di firme di docenti e discenti di quell'istituto, che demolivano pezzo per pezzo il risibile arzigogolo giuridistico del papa e del suo commentatore autorizzato. L'effetto dirompente, in casa democristiana, era stato raggiunto (seppur necessario: dubitiamo molto che i dorotei spodestati e i fanfaniani famelici avrebbero comunque lasciato giungere a buon fine il tentativo di Moro), e l'incarico passava al presidente del Senato. Con gli esiti che si sanno, perché, a questo punto, scontato il riobnubilamento mistificatorio della formula Moro ottenuto attraverso le manipolazioni di Fanfani, la diatriba vaticana sul divorzio è calata d'intensità -impressionati tutti dal ricatto elettorale prima ancora che dalla crisi del sistema temuta dietro la paralizzante crisi governativa-, per lasciare il posto a querelles più usuali e 'concrete' fra i leaders politici che conducono la "cuisine" in Italia: la trovata di Fanfani per un quadripartito di ferro, etc. etc. Mentre era in pieno corso questa tempesta, il card. Poma, arcivescovo di Bologna e presidente della CEI, scatenava il suo bravo uragano interno, convinto che la scelta dei tempi fosse singolarmente rispondente a una globale strategia di successo. E non staremo qui a esaminare gli aspetti grotteschi e antichi dello scambio di documenti avvenuto con i dirigenti delle AcLI, anzitutto perché i lettori di questa rivista conoscono bene i temi della contraddizione integristica di quell'associazione, che sono stati ancor recentemente sollevati (v. una recente bibliografia a p.35), e comunque perché l'intera vicenda viene ampiamente riferita in altra parte di questo fascicolo. Quando si pensi che l'intervento è avvenuto -vedi caso- nell'immminenza di una importante consultazione elettorale, e mentre quel che è stato chiamato il "partito delle elezioni" (dentro il quale gli integristi democristiani non difettano) si dava da fare per trasferire la consultazione al massimo livello, previo scioglimento delle camere, si comprenderà come l'ultimatum de card. Poma, oggettivamente "grossier" perfino nel contesto di una manovra diplomatica vaticana che non ha certo peccato di finezza e discrezione, consentiva di saldare l'arco dell'operazione politica cavandone, in ogni caso, il massimo vantaggio: chiudendo la legislatura, era l'isolamento e il ricatto della dirigenza aclista, oltre che delle sinistre democristiane, nel quadro di una campagna elettorale all'insegna della guerra di religione e dei temi più sanfedisti; prolungandola, era comunque un'azione di pressione sui seguaci di Labor e Gabaglio, oltre che sugli alleati di Moro, per ottenere da essi, grazie alla battaglia scatenata su due fronti, il massimo di allineamento elettorale e, soprattutto, il massimo di condiscendenza sull'oggetto primo dell'operazione: la questione combinata divorzio-Concordato. In questa grossa battaglia politica scatenata in Italia su temi integristici, il Vaticano ha probabilmente avvertito un solo elemento di verità della complessa questione della istituzione religiosa (nei suoi aspetti dottrinali, sociali, istituzionali e diplomatici) che gli è improvvisamente cresciuta davanti a dismisura dall'anno secondo del postconcilio, da quando cioè, come a suo tempo chiaramente rilevammo, il tentativo politico della "restaurazione aggiornata" di Paolo VI si rivelò chiaramente perdente, e il milieu progressista-moderato italico dovette cominciare a riconoscere che era falso affermare che il dilemma integrismo-antiintegrismo era morto e sepolto. Questo elemento di verità è elementare: il Vaticano comprende, invero con ritardo, che la strategia della "restaurazione aggiornata" non solo è perduta e impossibile, ma che soprattutto è finita ineluttabilmente la collocazione epocale della istituzione religiosa, sì che, in questo repentino processo di vera "fine dell'antichità" in cui oggi ormai ci troviamo (con tempi e modi che tendono a non essere la semplice ripetizione di quel plurisecolare passaggio che fu, fra il secondo e il quinto secolo della nostra era, la metanoia, o meglio la translitterazione della civiltà classica nella società cristiana protomedioevale -sì che erroneamente si ritenne che l'antichità fosse finita-, ma che sembrano doversi svolgere in breve periodo di anni con tensioni e contenuti storici di inconfrontabile significato e pregnanza materiale), il passaggio dall'impianto "teistico" all'impianto "ateistico" del mondo tende ad essere impietoso, totalizzante, e "in fine velociter". Nel congestionato, drammatico dibattito globale che investe l'istituzione le classiche strategie ecclesiastiche, che demandavano ab immemorabili alla dimensione tempo gran parte dei metodi solutivi dei problemi, cadono a pezzi, e il cauto riformismo, il progressismo moderato si trovano quotidianamente a contatto con il fallimento: sì che la "perdita del centro" che caratterizza da qualche decennio, con progressiva globalità, la crisi del nostro "essere nel mondo" si traduce qui nella caduta dei sostegni umani più collaudati della storica mediazione fra i contenuti istituzionali antichi e reazionari della comunicazione e della comunione e le forme elastiche e ambigue che ne garantivano la perpetuazione attraverso i secoli. Il risultato, anche a livello di micromanifestazioni, è ineluttabile: la ribellione e la contestazione radicale dell'istituzione, da una parte, sia che sposi le tensioni delle teologie negative e delle città secolari, sia che insegua mistiche nuove di rifondazione religiosa nella solidarietà dei bisogni umani; dall'altra, l'obbligato manifestarsi delle resistenze più cieche, anche in materie, come quella divorzistica, già largamente e non disastrosamente sperimentate dalla Chiesa in tutto il mondo, solo perché dietro l'angolo di ogni concessione "laicista" e antintegristica appare oggi ormai un tesuto di certezze areligiose che minaccia di dissolvere l'istituzione per il venir meno della sua interna coesione "autre", per il suo drammatico assumere i caratteri della "sovrastruttura". Nella definizione delle strategie e delle tattiche, affrettata, emozionata, ogni volta più "scoperta" ed esposta, mancano dunque progressivamente i tempi congrui del passato, emergono le contestazioni nei meccanismi interni, di più in più l'aspetto diplomatico di negoziati solutivi tende a guadagnare terreno su operazioni organiche più tranqulle e rassicuranti. E se questo è vero nella facies interna, risulta anche più evidente in quella esterna, nella misura in cui, nei loro rapporti con la società e lo Stato, la gerarchia e il Vaticano si accorgono che aumentano vertiginosamente, con l'indifferenza e la tolleranza, le strumentazioni psicologiche negative e positive che fanno arretrare senza sosta la soglia della legittimità del sacro, e negano progressivamente spazio all'operazione restaurazione, anzi, alla sopravvivenza dell'istituzione tout court. Se ogni giorno un punto è perduto, si pensa ai vertici d'oltre Tevere, conviene tentare di sancire istituzionalmente oggi quel che sarebbe certamente perduto domani. Si valuta, per contro, che siffatte dimostrazioni odierne di intolleranza e di insofferenza non possono che accelerare quel processo, mentre ogni formale vittoria di oggi sarebbe certamente destinata a rapidi consumi e a vicini rovesciamenti ? Davvero gli uomini del Vaticano non riescono a sottrarsi alla loro modesta ragioneria ? Nel suo proprium, la vicenda è di tragica grandezza. Ma poiché essa non è se non parte (e non la più importante, né la più lamentevole) della crisi di trasformazione del mondo, essa appare ai nostri occhi -anche se per alcuni implichi un duro interiore passaggio- marginale, disturbante, inammissibile. Non è solo l'antico schema dell'avversione alla guerra di religione che reclama oggi l'opposizione dei democratici e della sinistra -credenti compresi- alle manovre incredibili d'oltre Tevere, ma la consapevolezza più ampia e profonda della gigantesca decisiva posta in gioco nel mondo, per la quale si possono nutrire dispareri anche radicali sul grande passaggio che si impone al nostro tempo, ma non si possono accettare proposizioni che implicano solo la restituzione dell'uomo a un universo chiuso di simboli, di modelli e di processi che implicano mistificazione della sua liberazione anche quando ritengono, con onesta arretratezza intellettuale e strumentale, di contrastare il passo alle vertigini che, più di qualsiasi altra, la nostra epoca ci procura. Dunque, occorre dire di no, e far maturare, in ogni modo, lo scandalo dei credenti, la contraddizione dell'integrismo, la dissoluzione delle strutture partitiche e istituzionali di potere che 'reggono' la crisi della società italiana impedendone -non da sole- una trasformazione radicale. Non cadremo, certo, nell'ingenuità di ritenere che in questo problema sia la chiave di volta dell'edificio che la sinistra deve concepire e costruire nel nostro paese. Lo abbiamo già detto. Ma riteniamo che questo problema vesta in modo mistificante la realtà che abbiamo davanti, e contribuisca certamente alla confusione delle lingue e alla falsificazione delle divisioni reali, anche se queste non sono sempre e solo nei poveri schemi che i gruppi extraparlamentari da una parte, e i partiti dall'altra, credono di poter imporre come lo strumento scientifico della rivoluzione o del socialismo. Di qui, un motivo di più di lotta, una consapevolezza ulteriore per l'azione. La sinistra, credente o no, sappia che non si tratta di un lusso.