il manifesto
12 Giugno 1999 
 

NATO

 Un assolutismo poco illuminato

GIANNI FERRARA 

L a guerra è finita. L'accettazione da parte di Milosevic del piano predisposto dal G8 segna la conclusione di una vicenda bellica su cui bisogna riflettere molto. Non perché la sua conclusione abbia risolto la questione balcanica o abbia portato la pace in quella regione ove sembra che si siano depositate tutte le contraddizioni accumulate per secoli dalla storia d'Europa, nel rapporto del suo Est col suo Ovest, del suo Nord col suo Sud, tra stato e nazione, tra tolleranza e identità, tra radici e ragione. Come se le contraddizioni economico-sociali occultate dalla quantità della ricchezza socialmente prodotta nelle parti più industrializzate del continente avessero trovato nella più vasta delle penisole europee il luogo idoneo per il tranfert del conflitto intestandolo alle loro devianti proiezioni culturali, irrigidite in "valori" non mediabili. Come se questa localizzazione delle tensioni più aggressive si fosse poi offerta di condensare conflitti più complessi e più vasti, aventi matrici lontane e portata più grande, ma idonea a coinvolgere soggetti decisivi per la sorte della posta più alta. Sono vari i profili che espone la sostanza reale e simbolica della guerra Nato in Europa contro la Jugoslavia. Proviamo a rilevarne quello giuridico, per dedurne il significato politico-istituzionale.

 E' del tutto scontato che questa guerra si configuri come violazione multipla di normative diverse per origine ed efficacia che impone di definire la qualità dell'evento. Sembra del tutto plausibile che l'azione militare della Nato in Serbia sia ascrivibile ad un conflitto politico e giuridico forse già risolto. Ma non a favore delle ragioni del diritto, non per rafforzare le istituzioni che possano garantire la dignità e il valore della persona umana, "nell'eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole". E' il conflitto tra Nato e Onu. Ha ad oggetto nientemeno che la legittimità dell'uso della forza armata sul pianeta. E' di questo che si trattato: della delegittimazione dell'Onu da parte della Nato, che ne ha usurpato il potere legale dell'uso della forza. Ne ha vanificato la ragion d'essere, ne ha svuotato il ruolo, lasciandole forse quello di copertura di decisioni assunte altrove da altri.
 
 

L a crisi che da tempo aveva colpito l'Onu ha raggiunto probabilmente il suo grado più intenso. Paradossalmente, questa crisi non è stata determinata dalla riaffermazione del principio (e della pratica) della sovranità statale, se non nella sua assolutezza, nella sua pregnanza, sostanzialmente riduttiva delle funzioni dell'Onu, ma da un fenomeno dalle matrici opposte. Non sono gli stati come soggetti irriducibili ad ogni soggezione che si sono sottratti alle regole dettate per disciplinarne i comportamenti finalizzandoli ai principî della pace e della sicurezza internazionale. Non stiamo tornando al mondo delle relazioni interstatali ispirato al "modello Westfalia". Senza un'abrogazione dichiarata del principio della pace e della sicurezza che fu posto a fondamento del diritto internazionale istaurato dopo la seconda guerra mondiale, si va affermando un principio diverso come fattore inconfessato di regolazione del mondo. Non che si stia tornando alla vecchia autotutela reciproca, primitiva ma egualitaria. Non si sta restaurando l'antico jus pacis ac belli che ogni stato pretendeva e di cui si ha memoria coeva a quella della sua nascita.

 Mai abbattuto, solo un po' incrinato, è riemerso il monopolio della forza e della produzione del diritto come pretesa imperiosa. Ma di uno stato solo. In contraddizione eclatante con la Carta delle Nazioni Unite, cioé con le conquiste che sembravano acquisite almeno nella coscienza giuridica e nel linguaggio della diplomazia per l'inconfessabilità del suo opposto. L'aberrazione tutta lì. E' nella pretesa degli Stati Uniti di esercitare, attraverso la Nato o anche direttamente, il monopolio della forza e della prescrizione degli obblighi giuridici ai popoli ed altri stati del mondo, pretesa che già diventa pratica, già carpisce acquiescenza per tradursi in riconoscimento.

 Certo, il galateo internazionale, le tecniche di conquista del consenso su scala planetaria, l'opportunità di coinvolgimento attivo degli stati nell'accettazione della primazia, sconsigliano di affermare nella sua brutalità il principio dell'attribuzione ad un solo stato del monopolio della forza e della produzione del diritto. E' anche certo che un monopolio siffatto non è esercitabile e neanche configurabile nella sua forma pura e semplificata. Ha bisogno di istituzioni, di patti, di obbligazioni non tutte assunte e scontate, di adesioni più o meno coatte e coinvolgenti, di nuove formule ideologiche e del lessico adeguato a diffonderle e perciò a mascherarne l'essenza reale, la portata effettiva.

 La mondializzazione, d'altronde, non deve essere inventata. E' già penetrata nella realtà di questa fine di secolo, è storia vivente. Ne sperimentiamo il potere normativo con le prescrizioni del Fmi e della Banca mondiale, con le regole del Two. In Serbia e nel Kosovo, come con la guerra del Golfo, abbiamo misurato la sua proiezione politico-militare. Ha già prodotto una brutale torsione di quella tecnica regolativa e progettuale che da sempre conforma la condizione umana e che si chiama diritto. E' una torsione propiza alla pretesa, inaudita per la modernità, della concentrazione di tanta ambizione e di tanta forza.
 
 

A permetterla è stato il sonno del costituzionalismo, il contenimento delle sue ragioni nei vecchi confini, nel mentre si addensava, fuori da questo ambito, in altra forma ed in insospettata dimensione, tanto potere da riassorbire quello perduto nella dimensione statale ma indispensabile per la perpetuazione della sua matrice economico-sociale. Come per ogni manifestazione della ragione, questo sonno ha consentito, col travolgimento della pluralità della forma-stato, che il suo nucleo essenziale si condensasse.

 E' avvenuta, questa condensazione, a seguito di un processo di compenetrazione delle due dimensioni del diritto, di quello internazionale e di quello statale. Il primo penetra nel diritto interno di ciascuno degli stati, ne travolge le difese dalle interferenze ad esso esterne, in nome di qualcosa che possa essere usata come fonte di legittimazione, ad esempio: i diritti fondamentali dell'uomo, menzionati nel Preambolo dello statuto delle Nazioni unite ed elencati nella Dichiarazione universale dei diritti umani.

 Quello statale offre, invece, la sua essenza e la sua qualità: il monopolio della forza e della produzione del diritto, appunto. Ma sembra che la offra solo ad uno dei tanti soggetti che popolano l'universo del diritto internazionale, a quello che detiene questa forza e che pretende la legittimazione ad esercitarla.

 E' come se si riproducesse, su scala planetaria, il processo che dalla catastrofe del pluralismo istituzionale del medioevo portò alla nascita del soggetto-stato. Ma nella sua forma primigenia, quella dell'assolutismo. Da qui il compito, per il secolo che sta per nascere, di realizzare il costituzionalismo su scala internazionale. In nome dei diritti umani, certo, ma in modo da renderli universali e credibili: perciò congiungendoli alla frantumazione del potere, alla sua diffusione ed al suo controllo, alla democrazia nei grandi spazi.