Con quale diritto?

di Domenico Gallo, "il manifesto", 21 feb. 1998

La nuova guerra minacciata e programmata nel Golfo persico sembra la ripetizione in chiave tragicomica di un evento già successo sette anni fa. Questo rende più penoso il dibattito, più assuefetta e inerte l'opinione pubblica e più difficile la mobilitazione politica poichè si ha l'impressione di rivivivere un deja vu. E tuttavia non bisogna farsi ingannare dalle apparenze: l'evento bellico che si prepara nel febbraio del 1998 avviene in un contesto profondamente diverso da quello in cui maturò la guerra iniziata la notte del 17 gennaio 1991. Basta un sommario sguardo alle vicende ed al dibattito giuridico-politico dell'epoca per rendersene conto.

La crisi fu determinata da un atto di aggressione compiuto dall'Iraq che il 2 agosto 1990 occupò militarmente il Kuwait, manifestando l'intenzione di annettersi il relativo territorio e di estinguere lo Stato del Kuwait per debellazione.

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite quello stesso giorno, con la risoluzione n. 660 accertò che la sconsiderata azione militare Irachena costituiva un atto di aggressione, ai sensi dell'art. 39 della Carta, ed ordinò all'Iraq di ritirare le proprie truppe sulle posizioni di partenza. Il 6 agosto il Consiglio di Sicurezza, constatato che l'Iraq non aveva adempiuto all'ingiunzione di ritirarsi dal Kuwait, con la risoluzione n. 661 impose un pesante embargo a carico di questo paese, per indurlo a porre fine all'occupazione militare. Per evitare che l'embargo venisse disatteso il Consiglio di Sicurezza, con la risoluzione n. 665 del 25 agosto del 1990, autorizzò gli Stati membri, che collaboravano con il Governo del Kuwait ad utilizzare le forze navali nell'area per controllare il rispetto dell'embargo, attraverso il fermo e l'ispezione delle navi che transitavano nel Golfo persico.

L'azione immediata e decisa del Consiglio di Sicurezza, finalmente libero dalla paralisi che lo aveva bloccato durante l'epoca della guerra fredda, suscitò l'aspettativa che la crisi potesse essere risolta dall'ONU, attraverso gli strumenti del diritto. Addirittura la risoluzione 665 fu salutata con soddisfazione da Ernesto Balducci che, in un articolo pubblicato sull'Unità del 28 agosto 1990 (La Comunità mondiale al primo vagito) scrisse: "se ci sarà evitato il peggio, potremo ricordare questo mese di agosto come il mese in cui fra le doglie del parto, ha emesso il suo primo vagito la grande realtà etico-politica che andiamo sognando da cinquant'anni: la comunità mondiale." In realtà ben presto Balducci corresse il tiro ed in un articolo pubblicato da "L'Unità" del 16 settembre 1990 (Se dico ONU ecco cosa intendo) scrisse: "Non chiunque dice ONU, ONU entrerà nel regno senza guerre di cui l'ONU è il profeta disarmato." Infine, a seguito delle forti pressioni degli Stati Uniti, il Consiglio di Sicurezza, il 29 novembre 1990 adottò la risoluzione n. 678 con la quale autorizzò gli Stati membri che cooperavano con il Governo del Kuwait ad "usare tutti i mezzi necessari" per dare attuazione a tutte le altre precedenti risoluzioni del Consiglio disattese dall'Iraq, a partire dal 15 gennaio 1991. E' noto che nella notte fra il 16 ed il 17 gennaio 1991 la macchina bellica occidentale iniziò i bombardamenti sull'Iraq.

La risoluzione 678 fu lo scudo che consentì ad Andreotti, Presidente del Consiglio dell'epoca, di presentare al Parlamento ed all'opinione pubblica l'ingresso dell'Italia in guerra (la prima volta dal 1945) come partecipazione ad una operazione di polizia internazionale delle Nazioni Unite, decisa dal Consiglio di Sicurezza, ai sensi del Capitolo VII della Carta dell'ONU, e volta a ristabilire la pace e la sicurezza internazionale attraverso la repressione di una aggressione militare. In quest'ottica la partecipazione italiana alle operazioni belliche venne presentata come un fatto compatibile con il principio costituzionale del ripudio della guerra, fissato dall'art. 11, addirittura come attuazione del principio pacifista, contenuto in quell'articolo, che impone all'Italia di collaborare con le Nazioni Unite per realizzare un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni.

L'Italia fu attraversata da un forte movimento politico di protesta, che attraversò trasversalmente gli schieramenti politici. Anche la cultura giuridica democratica si divise secondo linee di frattura non convenzionali, fra fautori della legittimità delle operazioni militari (N. Bobbio, A. Cassese, A. Barbera, G. Gaja) e fautori della illegittimità (U. Allegretti, G. Ferrara, L. Ferrajoli, P. Onorato e gli altri firmatari dell'appello dei giuristi contro la guerra, pubblicato sul "Manifesto" del 26 gennaio 1991), con in mezzo alcuni autori divisi fra critiche di legittimità e non sconfessione dell'intervento (V. De Siervo e V. Onida).

Com'è noto, la finzione della operazione di polizia internazionale dell'ONU è stata falsificata dalla cruda realtà della guerra, condotta senza nessuna forma di controllo e/o di ingerenza da parte del Consiglio di Sicurezza o di altri organi dell'ONU. Il primo a prendere le distanze dalla tesi di Andreotti è stato proprio il Segretario Generale dell'ONU, Perez De Cuellar che, in un'intervista a "Le Monde" del 7 febbraio 1991 ha voluto precisare che si trattava di una "guerra autorizzata dall'ONU" e non di una "guerra dell'ONU".

La tesi della operazione di polizia internazionale, in verità, non è stata accettata neppure dai fautori delle legittimità della guerra, alcuni dei quali hanno fatto rientrare l'intervento militare nel concetto di legittima difesa collettiva, di cui all'art. 51 della Carta, a fronte dell'aggressione armata subita dal Kuwait (Gaja, Conforti), altri l'hanno inquadrata in un tertium genus fra la legittima difesa collettiva e le operazioni di polizia internazionale intraprese dal Consiglio di Sicurezza, ai sensi degli articoli 42 e seguenti della Carta (Cassese, Bobbio).

Comunque sia, la guerra ha portato all'attuazione della Risoluzione n. 660 del Consiglio di Sicurezza che imponeva all'Iraq di ritirare le sue truppe dal Kuwait ed al ristabilimento dell'autorità del governo di questo paese. In seguito l'Iraq ha riconosciuto il Governo del Kuwait ed ha accettato la frontiera tracciata sotto gli auspici del Consiglio di Sicurezza.

Di conseguenza la crisi dell'ordine internazionale iniziata nell'agosto del 1990 con l'aggressione irachena e proseguita con la risposta militare degli alleati del Kuwait nel gennaio del 1991, si è definitivamente conclusa con la repressione dell'atto di aggressione e con il completo annullamento dei suoi effetti. Nella regione, pertanto, è stata ristabilita la pace, sia pure a prezzo di una guerra devastante.

E tuttavia, per responsabilità del Consiglio di Sicurezza della guerra è rimasto in piedi uno strascico penoso ed ingiusto: l'embargo. Con la Risoluzione n.687 del 3 aprile 1991 il Consiglio di Sicurezza pur compiacendosi "del ristabilimento della sovanità, dell'indipendenza e dell'integrità territoriale del Kuwait e del ritorno del suo Governo legittimo" ha deciso che le sanzioni non saranno tolte fino a quando non sarà data applicazione completa ad un radicale programma di disarmo dell'Iraq, delineato nel capitolo 22 della medesima risoluzione. Dell'applicazione di tale programma è stata incaricata una speciale Commissione ONU per il disarmo. Tale Commissione ha lavorato per oltre sei anni, ed ha realizzato lo smantellamento dell'armamento missilistico, di quello chimico, degli agenti batteriologici nocivi e delle strutture utilizzabili per progammi nucleari. Attualmente la contestazione riguarda la possibilità di accesso ed ispezione di taluni siti nei palazzi presidenziali.

Nell'ordinamento internazionale delineato dalla Carta delle Nazioni Unite, non esiste più lo ius ad bellum. Nessuno Stato può fare ricorso a strumenti bellici per realizzare propri fini, neanche se si tratta di ottenere l'adempimento coattivo di obblighi internazionali, sanciti dalle Nazioni Unite.

L'uso della forza è consentito soltanto per contrastare un atto di aggressione, che derivi da un attacco armato altrui, ai sensi dell'art. 51, oppure per attuare le azioni coercitive che il Consiglio di Sicurezza decidesse di intraprendere per ristabilire la pace e la sicurezza internazionale, ai sensi degli articoli 42 e ss.

Né la Risoluzione 687 prevede la possibilità del ricorso a misure coercitive per l'attuazione del programma di disarmo dell'Iraq, che al contrario, è condizionato, da una misura certamente ingiusta (perché si risolve in una punizione collettiva) qual'è l'embargo, ma indubbiamente non implicante l'impiego della forza armata.

Nella crisi attuale non è stata commessa nessuna violazione della pace, né è stato compiuto alcun atto di aggressione. Nessuno può invocare la legittima difesa, nè il Consiglio di Sicurezza ha deliberato di intraprendere misure comportanti l'uso della forza, o di delegarle a taluni paesi membri. Non è possibile neanche invocare quel tertium genus, che taluni intravidero durante la crisi del 90/91, con riferimento ad una operazione militare intermedia fra legittima difesa collettiva ed azione coercitiva delle Nazioni Unite.

La pretesa degli Stati Uniti di sottoporre l'Iraq a massicci bombardamenti e di eliminare la sua leadership, manu militari, è altrettanto assurda ed ingiustificata quanto sarebbe assurda ed ingiustificata la pretesa delle Libia di bombardare Israele per non aver adempiuto alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 242 del 22 novembre 1967 che chiedeva a Israele di ritirarsi dai territori occupati durante la guerra dei sei giorni.

Per questo è inaccettabile la posizione di chi ritiene che se fallisce la diplomazia, il ricorso alla guerra debba essere considerato inevitabile. Se qualcuno ritiene di esprimere comprensione per l'azione americana, questa volta non invochi la scusa del diritto.