13 Luglio 1999 
 

Una missione colpita e affondata

La presenza Osce non ha fermato il conflitto in Kosovo:la regia era più in alto

Dalle ambigue trattative di Rambouillet alla escalation militare, fino all'evacuazione e alle bombe. Una testimone racconta come i verificatori Osce furono usati mentre si apriva la strada alla guerra

 

 

- TIZIANA BOARI* -

I l 15 gennaio scoppiano violenti scontri nella zona di Stimlje e Decani, dove due verificatori dell'Osce restano feriti dall'Uck. Lo stesso giorno Vienna emette un comunicato di netta condanna dell'accaduto. Il 16 a Racak, vicino a Stimlje, vengono ritrovati i cadaveri di 45 kosovari albanesi. In serata, conferenza stampa dell'ambasciatore Walker che attribuisce esplicitamente ai serbi il massacro, definendolo "un crimine contro l'umanità". La zona torna sotto controllo Uck e a nulla valgono i tentativi di mediazione per far arrivare sul luogo del massacro la giudice serba incaricata delle indagini. Lei pretende di entrare scortata dalla polizia, l'Uck rifiuta la polizia, l'Osce si offre di scortarla, ma lei non si fida. E il negoziato fallisce. Il 18 Belgrado dichiara Walker "persona non grata" e gli intima di lasciare la Federazione jugoslava, incluso il Montenegro, entro 48 ore. Gli aerei della Nato rombano. Il sottosegretario Ranieri arriva in quei giorni in visita a Belgrado e Pristina. Ci incontra quando siamo tutti in estrema tensione e il rischio di evacuazione è reale. Nel mio diario appunto: "Con tutto ciò che accade, non sentiamo più niente e tutto ci passa addosso come l'acqua. Se molliamo emotivamente, la pressione è così alta da farci soccombere. Per questo interiormente, anche in noi civili, scatta il meccanismo del militare: i sentimenti in questi frangenti non esistono più". La mediazione del presidente di turno dell'Osce, della Francia e della Russia "congela" l'espulsione di Walker. Ma la missione ormai è compromessa. Il 29 gennaio si ritenta l'escalation militare dopo un'altra strage dalle dinamiche ambigue a Rogovo.

 Per la missione, il lavoro di riappacificazione non procede: come si fa, in una situazione che è sempre più di guerra aperta, ad avviare interventi di sviluppo e democratizzazione? Lo sforzo è sempre più teso a trovare un interlocutore politico unico nel fronte dei kosovari albanesi: la situazione, e i fatti più recenti ce lo confermano in modo drammatico, ricorda quella dei clan somali, intenti a farsi la guerra gli uni contro gli altri per il territorio. Non tutti gli albanesi trovati cadavere morivano inconfutabilmente per mano serba come non tutti gli omicidi di kosovari albanesi erano sempre "etnici": la politica e la criminalità comune, il regolamento di conti tra bande si mischiavano, offuscando, nelle sensibilità dell'opinione pubblica e del mondo, la percezione della situazione nella regione. Intanto l'Occidente aveva inviato a Skopje la cosiddetta "Extraction Force" della Nato, che avrebbe dovuto tirarci fuori dai guai in caso di bisogno: sapevamo ormai perfettamente che la cosa non sarebbe mai avvenuta perché i serbi non avrebbero permesso a truppe straniere di entrare nel loro territorio. Dal 6 febbraio, ovvero dall'inizio dei colloqui di Rambouillet, cominciò l'azione sistematica dei guastatori serbi sulle loro frontiere: il confine con l'Albania e la Macedonia venne minato. L'unico modo per venirci a prendere sarebbe stato l'elicottero: ma a che prezzo?

 All'inizio del primo girone di colloqui di pace, l'edizione in inglese dello sponsorizzatissimo quotidiano in lingua albanese Koha Ditore pubblica la proposta del gruppo di contatto per intero e, a qualche giorno dall'inizio dei negoziati, anche la notizia (malauguratamente dimenticata più tardi dalla stampa occidentale) che i serbi avevano subito firmato l'accordo politico per restituire ampia autonomia al Kosovo e si riservavano di discutere in seguito la composizione di una presenza occidentale disarmata, che poteva tranquillamente continuare a essere l'Osce. Questa era la situazione che lasciai a Pristina prima di una settimana di brevi ferie romane. Tornai che si attendeva ancora la firma degli albanesi. Che non arrivò. Anche Belgrado non accolse favorevolmente, in sede di negoziato, l'inserimento improvviso del fantomatico annesso B sulla presenza e immunità della Nato sull'intero territorio della Repubblica federale jugoslava. Invece di dichiarare la conferenza fallita con le relative sanzioni, che avrebbero punito sia l'una che l'altra fazione in caso di responsabilità per il mancato raggiungimento dell'accordo, i mediatori internazionali sospesero i colloqui fino al 15 marzo. In questa fase cominciai ad accusare visibilmente i primi segni di stanchezza: Vienna continuava a inviarci nuovi verificatori quando la missione era divenuta altamente incerta e il quartier generale sovraffollato. Sebbene tra dicembre e febbraio fossero stati aperti i Centri regionali - Prizren, Mitrovica, Pec, Gnijlane e Pristina - con i Centri di coordinamento e gli Uffici territoriali (Field Offices), non si riuscì ad impiegare sensatamente il nuovo personale arrivato. I centri regionali operavano piuttosto autonomamente gli uni dagli altri e dal quartier generale ("the madhouse"), tanto che paradossalmente, benché privi di strategia unitaria, riuscivano ad ottenere risultati concreti. A metà febbraio si insediò il vicecapomissione italiano e, al posto di un poliziotto scozzese, anche la nuova portavoce dell'ambasciatore Walker, una giornalista francese, che verrà poi brutalmente liquidata dalla leadership della missione (con sottile connivenza del direttore della informazione pubblica, un danese assai poco comunicativo e brillante, vicino ai vertici americani di Pristina e Vienna).

 La preoccupazione principale di Walker sembrava a quel punto organizzare un'iniziativa pubblica che facesse pressione sul vertice kosovaro albanese, ormai egemonizzato dall'Uck, perché firmasse gli accordi di pace. L'iniziativa, convertita in "concerto per la pace", fortunatamente non ebbe luogo: avrebbe messo a grave rischio tutti i partecipanti e, nelle modalità proposte dal vertice, comportato relazioni con personaggi locali non impeccabili. Il progetto si "sgonfiò" per ragioni di sicurezza, ma ricordo ancora l'agitazione che mi procurò la vicenda, della quale avevo dovuto malauguratamente farmi carico sul piano organizzativo.

 Il 7 marzo scrivo: "La missione è fallita e nessuno ha il coraggio di ammetterlo". Intanto continuo a fare lezione di "rapporti con i media" al Centro di addestramento di Brezovica, dove l'affluenza di verificatori, a parte due stop & go, resta costante. A coadiuvarmi è Albatros, interprete e giornalista ventiquattrenne di Prizren che mi parla di un progetto per un quotidiano in albanese. Albatros sarà tra quelli che "ce la faranno" e racconterà la sua esperienza in un libro appena uscito in Italia (Albatros Rexhaj, Lettera ad un amico italiano dal Kosovo , ed. Rizzoli, lire 20.000). Dell'altra collega e amica giornalista con cui elaborai progetti di risoluzione dei conflitti, la kosovara Aferdita K., direttrice della validissima Rtv 21, non ho più notizia. Anche il mite e bravissimo Hilmi Z., giornalista del Kic e mio compagno di stanza insieme ad Andrej S., sembra scomparso nel nulla...

 A Brezovica, dove Albatros era una mosca bianca perché albanese, si diceva che i giorni critici sarebbero stati il 16-17-18 marzo. Questo è l'appunto che scrissi già il 7 marzo: "Qualcosa sta accadendo e sembra di capire che i serbi non firmeranno l'accordo e l'entrata delle truppe Nato. Finiremo tutti intrappolati, se l'evacuazione non sarà programmata bene... Qui continuano ad ammassarsi verificatori e al confine si ammassano le truppe serbe. Che Dio ce la mandi buona!". E' l'ultima pagina che scrivo dal Kosovo.

 Il 13 marzo scoppiano tre bombe nei mercati di Podujevo e Mitrovica. L'Hotel Grand di Pristina si popola di strani e sospetti individui, molti che indossano la tuta nera dell'Obilic, la squadra di calcio del comandante Arkan. Esce il riassunto del rapporto dei medici finlandesi sul massacro di Racak: un balletto sui carboni accesi durante la conferenza stampa che l'Ue, committente delle autopsie, tiene nel nostro quartier generale e che finisce a suon di fischi. Ci si prepara all'evacuazione: lo abbiamo già fatto due volte, una scocciatura, ma niente di nuovo. Capiamo che la situazione è seria quando ci giunge notizia, la mattina del 19, che gli albanesi hanno firmato unilateralmente l'accordo (firmano anche i garanti Hill e Petritsch, ma non il russo Majorski). Francia ed Inghilterra insistono affinché sia garantita la nostra incolumità. L'ordine di evacuazione entro 24 ore arriva nel primo pomeriggio da Oslo. Qualcuno vorrebbe restare su base volontaria, ma non gli viene consentito. A dire il vero, avevamo messo in conto di dover fare gli scudi umani per un po'... Nessuno, ma proprio nessuno vuole fare i conti con cosa accadrà quando lasceremo i nostri 1.500 dipendenti locali, ormai schedati ed esposti alle ritorsioni di entrambe le fazioni perché ex Osce. Qualcuno di noi lo sa e trema: nessuno ufficialmente si preoccupa minimamente di negoziare garanzie o di far evacuare temporaneamente in Macedonia anche il personale locale. Zoran Andjelkovic, presidente del Consiglio esecutivo del Kosovo, garantì la nostra incolumità.

 Appuntamento alle 4 di sabato mattina. Ricordo ancora l'affanno di riuscire a consegnare due valigie che non potevo portare via, al collega Zaccaria de La Stampa . Qualche giorno dopo a Zaccaria rubarono tutto. Le due valigie forse sono ancora lì, nel soggiorno della casa del turco Hidris, in via Stevan Deqanski 46, se serbi prima e Uck poi non le hanno saccheggiate... Intorno alle 3 del mattino del 20 marzo, parte in avanscoperta qualche vettura del dipartimento logistica: a un certo punto arriva una sventagliata di mitra da parte dell'Uck e i verificatori Osce sono costretti a chiamare la polizia serba per farsi scortare fino al confine. Passiamo sopra un ponte e sotto un tunnel che sappiamo minati. Alle 11 l'ultima vettura lascia il confine: i nostri visti vengono accuratamente annullati.

 Veniamo distribuiti in giro per alberghi macedoni, con il quartier generale nell'Aleksandar Palace di Skopje. Inizia l'agonia di una missione che in teoria non ha più mandato per esistere. Non c'è più nulla da fare, ci si trascina in un'atmosfera da Titanic. Arriva qualche profugo alla spicciolata, ci raggiunge qualche dipendente locale. Aspettiamo l'inizio degli attacchi, è solo questione di ore. E si sa che, anche senza Consiglio di sicurezza Onu, gli Usa attaccheranno unilateralmente sotto spoglie Nato. Al miracolo non crede più nessuno. La sera del 24 marzo nella hall dell'albergo si suonano i violini per allentare la tensione, proprio come a bordo del transatlantico che affonda. Colleghi italiani mi chiamano per dirmi allarmati che si sta tentando di dare una giustificazione umanitaria all'intervento. Perché ci hanno fatto andare via quando sapevano da tempo che non sarebbe potuto arrivare nessuno via terra a controllare la situazione? Alle 17 circa, le prime bombe. I russi, già tagliati fuori dal flusso informativo prima e ancora di più una volta arrivati in Macedonia, ricevono ordine da Mosca di abbandonare la missione il giorno dopo per protesta. Quello stesso giorno mi spostano a Ocrida insieme ad altri. Voglio tornarmene a casa e non capisco perché ci si metta tanto a decidere. Portare a spasso 1.400 persone per la Macedonia senza far fare loro nulla mi pare una bella impresa... A Skopje giungono i giornalisti italiani scacciati da una Pristina messa a ferro e a fuoco. I profughi cominciano ad arrivare intorno al 27-28 marzo, di lì a poco l'emergenza sarà disperata. Parto il 29 marzo su un C130 italiano dall'aeroporto di Ocrida, dove arrivano le notizie dei primi morti tra i nostri colleghi locali. Mi lascio dietro la missione ridotta al 20% che si dividerà tra Albania e Macedonia fino all'8 giugno. In aeroporto, attendiamo tre ore prima di partire: problemi di corridoio aereo. Chissà, magari un errore della contraerea e finiamo abbattuti... A Ciampino ci accolgono rappresentanti delle Forze armate e del Mae. E' la fine, o forse l'inizio del peggio. Nessuno pensava allora che la guerra sarebbe durata così a lungo. Oggi nel Kosovo inquinato dall'uranio impoverito dei missili e delle bombe non voglio tornare. E non lo vogliono i colleghi e amici che con me hanno lavorato per una soluzione pacifica. La consapevolezza di essere stati usati per preparare i bombardamenti è già un prezzo pesante da pagare. Penso alle parole di Albatros. In questa guerra non ci sono vincitori. Abbiamo perso tutti.
 
 

(2. fine - la prima parte è uscita su "il manifesto" di domenica 11 luglio)
 
 

*Giornalista, ha lavorato per la "Kosovo verification mission" dell'Osce fino alla fine di marzo di quest'anno. Non ricopre quindi alcun incarico presso la missione dell'Osce attualmente operante in Kosovo