LA SFIDA / Riviviamo tornante per tornante lo spettacolare epilogo di Montecampione

E il grande duello diventa favola
Pantani e Tonkov, la fantasia contro la forza sulla montagna dal nome evocatore
Marco parte, il russo risponde - Riprova ancora e Pavel è sempre con lui, come un'ombra - Il popolo del Pirata ha paura, vede un sogno sfumare - Anche mamma Tonina sull'ultimo tornante comincia a non crederci più, solo papà Ferdinando sussurra l'atto di fede: «Non è ancora finita» - Sino a 2,8 km dal traguardo, l'appuntamento con la gloria

Claudio Gregori,

DAL NOSTRO INVIATO

MONTECAMPIONE - L'asfalto è come la steppa battuta da nomadi a cavallo. Pantani lo attraversava sfavillante con la sua livrea rosa. Tutto scintillava in lui: il sole giocava con i raggi delle ruote e il diamantino, incastonato nel naso, emetteva bagliori. I suoi occhi leggevano cartelli baldanzosi: «Vai pirata. Togli il cappello e staccali», «All'arrembaggio pirata», «Vola Pantani». Intorno il tifo era coinvolgente, acuito dall'affetto, affilato dalla trepidazione. Su questa montagna, dal nome evocatore, si consumava il duello più grande. Due eroi della «chanson de geste» del Giro si cimentavano in un testa a testa di una bellezza abbagliante e mortale. Gli altri erano lontani, giù per le spire della montagna, esausti, madidi, nudi, trasecolati, oppure già tramortiti dalla sconfitta.

Pantani è uno scherzo della fantasia, un genio di strada evaso da una lampada di Aladino e atterrato in Romagna su un tappeto volante. Ha la testa di un folletto, con le orecchie a punta e occhi scintillanti. La sua corsa non è mai conformista. Deflagra. + pura invenzione. Tonkov, invece, viene dalla Russia immensa, ha la calma invincibile di un cosacco di Tolstoj. In bici non sembra un uomo, ma una fortezza. La sfida era tra fantasia e forza.

Pantani morde lo spazio. Spericolato, attacca, in bilico sui pedali. Le sue ruote sfiorano sempre sentieri sospesi sull'abisso. Ieri la gente, con raccapriccio, vedeva sopra di lui l'ombra di quel «cavaliere nero». La faccia di Tonkov proviene dal mistero. I suoi geni sono migrati dall'Asia profonda sulla groppa dei cavalli di Gengis Khan. La fatica lo percorre, come un fiume sotterraneo, senza lasciare tracce. La strada era spettacolo. Tonkov parava un grande attacco di Pantani, al km 17, con la naturalezza di un vincitore. Rintuzzava nuovi attacchi, senza scomporsi. Invano Pantani si torceva sopra la bici in uno sforzo immane. Il tifo vedeva una bocca di lupo sopra la maglia rosa. Tonkov incarnava il mito della Gorgone, capace di pietrificare il rivale con lo sguardo.

La corsa diventava inquietudine e rovello. Pantani, presentendo l'ossessione dell'incompiuta, lanciava al rivale un'occhiata giottesca, dicendogli: «Tira un po'». Tonkov gli rispondeva col silenzio. La sfida era sovrumana. Sopra quelle ruote, alla maniera omerica, incombeva il Fato. Il duello era titanico, appassionante. I bordi della strada erano fioriti di facce trepidanti, come le mura di Troia, quando Achille inseguì Ettore.

A °6 Km l'ammiraglia affiancava Pantani e il direttore sportivo Martinelli lo incoraggiava: «Riprova». Il folletto lo guardava risentito, quasi dicesse «non ho mica le ali». La strada vibrava di grida e sussurri. Mamma Tonina, appostata sull'ultima curva, gemeva: «Non ce la fa» e si stringeva ai nipotini, Denis e Serena. Papà Ferdinando la teneva a bada con un rantolo: «Non è ancora finita». «Temo che Tonkov abbia ormai partita vinta», sussurrava Gimondi, mentre i due cavalieri colorati passavano a 3 chilometri dal traguardo. Nell'ammiraglia, ridotta ormai a tomba semovente, Martinelli aveva un pensiero disperato: «+ impossibile che non si stacchi». Pantani sembrava l'eroe coraggioso e fragile, esposto alla sconfitta. Il tifo lo nutriva di applausi.

La maschera di Tonkov era ormai una sfinge immensa, quando affrontava un tornante verso sinistra a °2,8 km. Lì Pantani partiva di nuovo per l'ultimo assalto. Più tardi dirà: «Quando scattavo, mettevo sempre la testa giù e lo guardavo da sotto l'ascella, ma lui sempre mi tornava sotto. Lì, invece, ho visto che non c'era più e sono andato via».

La gente vedeva un ciclista che decollava. Il telaio era un manico di scopa, su cui Pantani volava a scrivere la sua favola. E gli spettatori erano posseduti da una visione. Il cosacco invincibile era laggiù, in fondo alla strada. Duellava ancora con furore magnifico. Ma, davanti a lui, imprendibile, il folletto volava. L'urlo di papà lo inseguiva, senza raggiungerlo: «Marco, vai che sei un mostro!». La strada esplodeva, l'asfalto era un torrente di lava. Anche occhi antichi scoprivano la gemma di qualche lacrima. La gente si abbracciava, mentre il cavaliere rosa attraversava il traguardo. E scopriva, sulla montagna, il paradiso della felicità.

«Zio è bravo. Vince sempre», diceva Serena, 8 anni, con una punta d'orgoglio. «Non avevo dubbi», sbottava papà, mentre Pavel Tonkov, guerreggiando fieramente, battuto, ma non vinto, attraversava il traguardo. Solo in quel momento, guardandolo, ci siamo ricordati di una frase di Platone: «Gli occhi gettano luce». La maschera di pietra non c'era più.